Ritratto di gentildonna
Nella Sala del Seicento del Museo Civico è esposto questo ritratto femminile dalla raffinate fattezze e dalla storia ancora molto oscura.
Sul retro della tela compare la scritta Veronica Gambara principessa di Correggio 1508 nella sua età di anni 24. Fatto in Brescia.
Apparentemente, quindi, un’identificazione del personaggio rappresentato certa e definita: la grande poetessa e donna di Stato Veronica Gambara, moglie di Giberto X da Correggio, effigiata nell’anno del proprio matrimonio.
Eppure, guardando con attenzione il dipinto qualcosa non convince, non coincide con la scritta apposta sul retro: il ritratto sembra assai più tardivo e, soprattutto, il ricchissimo vestito indossato dal personaggio non è in sintonia con la presunta data dell’opera, cioè il 1508.
In realtà l’apparentemente certa identificazione è frutto di un equivoco cui diede origine l’antico proprietario del quadro, Antonio Alessandro Arrivabene, appartenente al ramo correggese della nobile famiglia mantovana. Fu lui, secondo la testimonianza di Girolamo Colleoni, a battezzare un quadro a capriccio asserendolo il ritratto di Veronica Gambara.
Un capriccio che peraltro ebbe nel corso dei secoli molta fortuna, divenendo l’iconografia ufficiale della contessa e solo nella seconda metà del Novecento si cominciarono ad avanzare altre attribuzioni tanto identificative del personaggio quanto relative all’autore.
Riccardo Finzi nel 1962, sulle ragioni stilistiche già esposte da Augusta Ghidiglia Quintavalle nel 1959, propose, per identificare la gentildonna, il nome di Anna Pennoni, moglie di Siro da Correggio. Tuttavia anche questa ipotesi apparve quasi da subito abbastanza debole, non spiegando adeguatamente l’eventuale collegamento tra il dipinto e la sua presenza nelle raccolte degli Arrivabene. Mancando, al momento, altri elementi che possano confermare una delle ipotesi fino ad ora avanzate, se ne può aggiungere un’altra. Che, cioè, si tratti di un ritratto di una dama di casa Arrivabene (del ramo mantovano?).
Analoghe incertezze vertono ancora anche sul nome dell’autore. Se Enrico Bertolini negli Anni venti del secolo scorso parlava di un ignoto fiammingo del primo Cinquecento (giusto l’ambito culturale fiammingo, completamente errata la collocazione cronologica), Finzi accennava ad una vecchia e non confermata attribuzione a Frans Pourbus il Giovane.
Ghidiglia Quintavalle assegnò il dipinto, seppure in forma dubitativa a Sante Peranda, nel periodo (1608-1627) in cui lavorava nelle corti dei Pico di Mirandola e degli Este.
Su questa ipotesi si è mossa anche Graziella Martinelli Braglia che ha accolto nel catalogo dei dipinti di Peranda il nostro ritratto, con la possibilità della collaborazione del figlio Michelangelo.
Come notano Gian Paolo Lusetti e Valter Pratissoli, la dama effigiata ci viene mostrata in una visione diversa rispetto a quanto avviene di solito in Peranda che suole animare le formule della ritrattistica internazionale con uno spirito comunicativo che presuppone da una parte i modelli rubensiani e dall’altra l’educazione veneziana del pittore.
Una constatazione che spinge i due studiosi a ricercare l’autore del quadro tra i tanti fiamminghi scesi in Italia tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento, e che si esercitarono sovente nella ritrattistica di corte. La foggia dell’abito e il tipo di acconciatura inducono a ritenere il dipinto eseguito intorno al 1610.
Proprio l’abbigliamento e l’acconciatura meritano alcune considerazioni aggiuntive.
L’interesse dell’immagine per la storia del costume è notevole. L’autore ha raffigurato con grande precisione l’ampia gorgiera a merletto dal caratteristico motivo dei cuori (presenza che fece ipotizzare il ritratto di Anna Pennoni, moglie di Siro) con sovrapposte due frecce incrociate.
La veste ha disegni gigliati, con ricchissimi ricami di perle e di gemme, mentre l’acconciatura, impreziosita dai puntali con rare perle a goccia, che valorizzano le diafane carni della dama, ci restituisce un elemento fortemente evocativo. Si tratta di un garofano rosso appuntato fra i capelli, presso il nodo di perle “a fontana”, che costituisce , con tutta probabilità, un’allusione a una promessa di matrimonio, secondo una consuetudine nuziale fiamminga trapassata nella ritrattistica cortigiana.
Gabriele Fabbrici